non è forse questo il potere delle parole, ossia di dar vita ad immagini che nel mondo del cerchio e del quadro non sono mai esistite?

domenica 1 giugno 2014

sull'addio di Melpomene alla scene de "la teca di Melpomene"

Io proprio non ci sono portata agli addii. Ci provo sempre a chiudere perchè arriva sempre il momento nella vita in cui si devono tirare le righe e fare le somme e a volte le lunghe addizioni hanno come risultato un solo numero: lo zero.
Questo blog era nato tanti anni fa, nel 2008. Allora Melpomene era qualcuno, aveva motivo d'esistere e come ogni personaggio che si rispetti, così anche Melpomene si era impossessata di una vita propria, indipendente dal suo autore, una certa Giorgia Bernardini che nel 2008 aveva 23 anni e si era trasferita ad Heidelberg. A quel tempo questa Melpomene era un alter ego nato per dire un sacco di cose a qualche persona. Era nata per arrabbiarsi, per disperarsi e a volte anche per chiedere scusa.
Melpomene era una donna con le palle. Mel si sapeva incazzare e dire quando una cosa non gli andava bene. Lo faceva a modo suo, certo. Con sogni strani in cui il suo amore andato a male si mescolava in una centrifuga di camicie bianche mescolate a pezzi di cervello sanguinolento oppure con immagini di nudità. Melpomene arrivava a casa ogni sera, in una piccola stanza di uno studentato tedesco, una stanza fredda e senza personalità, con un piccolo poster di Lucy e Schroeder appeso sopra la non testiera del letto, arrivava in questa casa dopo ore infinite di inutile studio sulla conformazione dei vari fori romani spersi nel mondo, e una volta chiusasi la porta alle spalle si spogliava di tutto e diventava solo se stessa: una figuretta isterica e sofferente che si piegava al primo soffio di vento. Melpomene si è piegata un sacco di volte ma poi si è sempre risollevata. Ha raccontato tante storie, per lo più tristi e dalla fine confusa. I pensieri e i sogni di lei si sono rimescolati tante volte nelle centrifughe dei suoi sogni e a volte ne sono nate storie felici come quella di quando si innamorò di Anemos senza averlo visto mai. Anemos era un vento dietro al quale si nascondeva un uomo lontano e mai conosciuto che l'aveva raccolta da terra e l'aveva risollevata con la sua assenza. Il vento passa solo attraverso le fienstre aperte e Melpomene allora era una finestra aperta attraverso cui poteva passare solo un vento inesistente. Anche quella volta Melpomene ha rimescolato tutto e ha capito che la vita non è un Anemos che non si vede mai ed è andata avanti. Però Anemos resta una storia felice e il fato ha poi voluto che la persona che stava dietro quel vento e lei s'incontrassero sul serio. Dopo quello, niente più.
Ho cercato disperatamente di portare avanti Melpomene in tutti i modi, anche quando sentivo che il suo respiro si stava facendo più flebile. Adesso, oggi, davvero non c'è più niente di lei perchè non c'è più motivo di arrabbiarsi con nessuno.
Tutta quella forza però non è andata persa. Tutta quella forza c'è e io la sto incanalando per realizzare il mio sogno più grande, con la sola differenza che adesso non ho più bisogno di nascondermi dietro un personaggio che non ha corpo. Adesso ho un corpo e una voce e fra Heidelberg e la città dove sono oggi ci sono di mezzo altre tre città, un lavoro e un passato che ho imparato a mettere in scatola e quindi a tacere. Con questo non vuol dire che ho dimenticato, con questo voglio dire che a parlare di quel passato non sarà più Mel, ma sarò io.

Melpomene mi saluta e saluta voi: uno, dieci, cento lettori che siate o siete stati.
Sapete dove trovarmi, ma non mi troverete più qui.
La lunga sommatoria di tutti questi numeri fa zero e ho ritardato il momento in cui avrei tirato questa linea ma ora è giunto il momento di farlo.

Melpomene vi dice addio. Io, invece, ci sono sempre. Se lo vorrete potrete trovarmi da qualche altra parte.
Io ci sono sempre.

Giorgia

venerdì 7 febbraio 2014

Pier Vittorio Tondelli: la Berlino intimista che oggi non ci racconta più nessuno





Berlino. La città che negli Anni Zero si ama incondizionatamente, senza metterla in discussione mai. La città del fine settimana che si protrae per quattro giorni di fila, partendo da giovedì notte, a cavallo della domenica, si allunga come una mano invisibile sino al lunedì. Party che si spengono lentamente, una fine cadenzata dall’abbandono dei dancefloor da parte di corpi sfiancati dalle droghe e dalla musica.
I racconti che giungono da coloro che questa città l’hanno vissuta e la vivono davvero parlano di feste mitologiche, uomini e donne dalle fattezze divine che dopo un rapido flirt sulla pista chiedono senza arrossire “ zu mir oder zu dir (andiamo da me o andiamo da te)?”. Un paradiso sulla terra. Una giostra psichedelica che non si ferma mai. Cibo a poco prezzo per i nostri animi feriti dalla crisi e dal futuro incerto. A Berlino si ha l’idea di non poter restare mai soli; o meglio, si ha l’impressione che non si senta più il bisogno di esserlo.
Eppure c’è stata un’altra Berlino, una città dal volto di cui oggi non ci arriva nessuna notizia dall’estero.
Pier Vittorio Tondelli, celebre scrittore vessillo della cultura degli anni ottanta, ce la restituisce come una città dalle capacità taumaturgiche. Leggendo le righe di Un weekend postmoderno ce lo immaginiamo camminare lungo i vialetti del Tiergarten, solo et pensoso, con il bavero del giubbotto sollevato e le mani gelate in tasca. A didascalia di questa immagine Tondelli racconta che «c’erano momenti in cui, camminando solitario lungo i vasti marciapiedi di Berlino Ovest (…) poteva anche capitarmi di pensare d’essere, a mio particolarissimo modo, felice: momenti, cioè, di pienezza interiore senza la vicinanza e l’appoggio di amanti, amici, gente con cui conversare». Berlino viene descritta come una città intimista, ospedale ad aria aperta per coloro i quali cercano una cura per il loro malessere; un malessere interiore che lo scrittore conosce bene e da cui cerca sollievo viaggiando senza posa, da solo in giro per il mondo, assecondando un indomabile «bisogno di silenzio, di solitudine, di dormire, di ricordare, di tacere, di sparire». D’altronde, scagli la prima pietra chi non ha provato questi bisogni almeno una volta nella vita. 
Il tema del viaggio accompagna l’opera di Tondelli come un basso continuo, si intreccia nella trama letteraria delle sue opere (da Autobahn, racconto-capolavoro della sua opera prima Altri libertini sino a Camere Separate, ultimo romanzo i cui eventi si svolgono fra Italia e la Germania) così come nella sua esistenza, restituendoci l’immagine del movimento senza posa come la cura all’insoddisfazione del quotidiano e della provincia da cui proviene per nascita: «se sono partito, se sono andato (…) è perché dovevo rispondere a un’ansietà che è dentro di me». E se la sua storia personale e letteraria è costellata di viaggi, brevi permanenze, amori internazionali, amicizie allacciate ad una festa di intellettuali o sullo sgabello del bancone di un bar, una delle tappe più importanti per lo scrittore è la Berlino degli anni Ottanta, ancora divisa, eccentrica, fedele a se stessa ma soprattutto autentica. In visita nella capitale nell’inverno del 1985 racconta che «Berlino è una città che ti mette, spietatamente, e nello stesso istante, di fronte a te stesso e di fronte alla follia degli uomini, della guerra, delle divisioni e degli schieramenti politici. Una città in cui puoi ritrovarti, se ti sei perso, o perderti completamente, se lo vuoi, nell’abbandono languido, venato di tristezza e malinconia che essa ti offre».
Viene da chiedersi allora se qualcuno dei circa 25mila italiani che oggi abitano ufficialmente a Berlino conosce o semplicemente saprebbe riconoscere la malinconia che cola dalle pareti dei palazzi o che il gelido vento  polacco porta con sé, spirando fra i larghi viali dove gli scheletri degli alberi si piegano stanchi sotto il peso della neve. E una volta riconosciutala, apprezzarla e capire che è da quelle stesse mura che si sgretola l’essenza di Berlino, ferita e a tratti ancora divisa, ma nonostante ciò generosa e pronta ad accogliere e curare.  Mi viene da dire, mi viene da sperare: forse sì. E allora, fra un giro in bicicletta e un altro in pista, dimostratelo che avete capito, dimostratelo anche a noi che siamo rimasti qui a guardarvi divertire.

venerdì 31 gennaio 2014

qui non penso mai sì si può vivere

Mia cara amata ti lascio ma non è un addio, è un arrivederci. Ci siamo incontrate troppo presto e io sono come quei giovinotti che non possono dedicarsi completamente ad una sola donna finchè non si sono saziati di mondo. Sono talmente sicura di appartenerti che non sono venuta nemmeno a salutarti, ti basti sapere che ti porto con me: che tu vedrai tutto ciò che vedrò io, perchè sarai dentro i miei occhi. Ti basti sapere che sarai il termine di paragone ultimo per ogni immagine che mi scorrerà davanti e qualsiasi altro rumore, musica, canto o parola dovrà impietosamente confrontarsi con la tua consueta durezza.
Mia amata, devo andare via. Sei troppo grande per me, talmente grande che mi strabordi da tutte le parti, mi scivoli via. Devo andare in un luogo umano, devo andare lì fuori, fuori da te che sei talmente grande che chiunque ti abbia conosciuta non riesce a superare un solo giorno senza tornare anche solo per un attimo con la memoria a te.
Mi hai accolta ferita e confusa, piccola e fragile, incoscente e sola.  Mi hai restituita a me stessa, ma dopo due anni sono sempre la stessa, io: non sono abbastanza sazia per potermi fermare da te, non posso ignorare che mi serve una cura e quella cura non sei tu. Tu invece sei il contrario:
sei grande e fredda come una matrigna delle favole, sei scontrosa e dura come un vecchio accigliato che fuma il sigaro su una panchina, sei distrutta come una donna maltrattata e altro non puoi restituire che questo: indifferenza a chi viene e chi va. E se anche solo esistesse il dubbio che tu non ti sei nemmeno accorta di me, io invece ti adoro come una bambina adora sua madre: senza limite, come se tu fossi la divinità del mio focolare. 
Arrivederci mia amata Berlino
Quel freddo che mi hai insegnato lo porto sempre con me.