Berlino. La città che negli Anni Zero si ama
incondizionatamente, senza metterla in discussione mai. La città del fine
settimana che si protrae per quattro giorni di fila, partendo da giovedì notte,
a cavallo della domenica, si allunga come una mano invisibile sino al lunedì.
Party che si spengono lentamente, una fine cadenzata dall’abbandono dei dancefloor da parte di corpi sfiancati
dalle droghe e dalla musica.
I racconti che giungono da coloro che questa
città l’hanno vissuta e la vivono davvero parlano di feste mitologiche, uomini
e donne dalle fattezze divine che dopo un rapido flirt sulla pista chiedono
senza arrossire “ zu mir oder zu dir
(andiamo da me o andiamo da te)?”. Un paradiso sulla terra. Una giostra
psichedelica che non si ferma mai. Cibo a poco prezzo per i nostri animi feriti
dalla crisi e dal futuro incerto. A Berlino si ha l’idea di non poter restare
mai soli; o meglio, si ha l’impressione che non si senta più il bisogno di
esserlo.
Eppure c’è stata un’altra Berlino, una città
dal volto di cui oggi non ci arriva nessuna notizia dall’estero.
Pier Vittorio Tondelli, celebre scrittore
vessillo della cultura degli anni ottanta, ce la restituisce come una città
dalle capacità taumaturgiche. Leggendo le righe di Un weekend postmoderno ce lo immaginiamo camminare lungo i vialetti
del Tiergarten, solo et pensoso, con
il bavero del giubbotto sollevato e le mani gelate in tasca. A didascalia di
questa immagine Tondelli racconta che «c’erano momenti in cui, camminando
solitario lungo i vasti marciapiedi di Berlino Ovest (…) poteva anche capitarmi
di pensare d’essere, a mio particolarissimo modo, felice: momenti, cioè, di
pienezza interiore senza la vicinanza e l’appoggio di amanti, amici, gente con
cui conversare». Berlino viene descritta come una città intimista, ospedale ad
aria aperta per coloro i quali cercano una cura per il loro malessere; un
malessere interiore che lo scrittore conosce bene e da cui cerca sollievo viaggiando
senza posa, da solo in giro per il mondo, assecondando un indomabile «bisogno
di silenzio, di solitudine, di dormire, di ricordare, di tacere, di sparire».
D’altronde, scagli la prima pietra chi non ha provato questi bisogni almeno una
volta nella vita.
Il tema del viaggio accompagna l’opera di
Tondelli come un basso continuo, si intreccia nella trama letteraria delle sue
opere (da Autobahn,
racconto-capolavoro della sua opera prima Altri
libertini sino a Camere Separate,
ultimo romanzo i cui eventi si svolgono fra Italia e la Germania) così come
nella sua esistenza, restituendoci l’immagine del movimento senza posa come la
cura all’insoddisfazione del quotidiano e della provincia da cui proviene per
nascita: «se sono partito, se sono andato (…) è perché dovevo rispondere a
un’ansietà che è dentro di me». E se la sua storia personale e letteraria è
costellata di viaggi, brevi permanenze, amori internazionali, amicizie
allacciate ad una festa di intellettuali o sullo sgabello del bancone di un
bar, una delle tappe più importanti per lo scrittore è la Berlino degli anni
Ottanta, ancora divisa, eccentrica, fedele a se stessa ma soprattutto
autentica. In visita nella capitale nell’inverno del 1985 racconta che «Berlino
è una città che ti mette, spietatamente, e nello stesso istante, di fronte a te
stesso e di fronte alla follia degli uomini, della guerra, delle divisioni e
degli schieramenti politici. Una città in cui puoi ritrovarti, se ti sei perso,
o perderti completamente, se lo vuoi, nell’abbandono languido, venato di
tristezza e malinconia che essa ti offre».
Viene da chiedersi allora se qualcuno dei circa
25mila italiani che oggi abitano ufficialmente a Berlino conosce o
semplicemente saprebbe riconoscere la malinconia che cola dalle pareti dei
palazzi o che il gelido vento polacco
porta con sé, spirando fra i larghi viali dove gli scheletri degli alberi si
piegano stanchi sotto il peso della neve. E una volta riconosciutala,
apprezzarla e capire che è da quelle stesse mura che si sgretola l’essenza di
Berlino, ferita e a tratti ancora divisa, ma nonostante ciò generosa e pronta
ad accogliere e curare. Mi viene da
dire, mi viene da sperare: forse sì. E allora, fra un giro in bicicletta e un
altro in pista, dimostratelo che avete capito, dimostratelo anche a noi che
siamo rimasti qui a guardarvi divertire.